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La legge 194 nacque davvero in un contesto particolare, che, con parole un po’ forti, può definirsi di menzogna, di ricatto e di paura. Più di un terzo della popolazione italiana è nato dopo il 1978; per gli altri il tempo ha spento la memoria. Perciò sembra giusto ricordare i fatti più rilevanti che accompagnarono l’iter legislativo della legge 194. Essi sono: la scoperta a Firenze, nel gennaio 1975, di una clinica clandestina di aborti promossa dal partito radicale; la sentenza della Corte Costituzionale n. 27 del 18 febbraio 1975; gli eventi di Seveso dell’estate 1976; il referendum proposto dai radicali contro le disposizioni del codice penale che vietavano l’aborto; il voto del Senato che il 7 giugno 1977 dichiarò l’incostituzionalità del progetto che l’anno successivo è divenuto la legge 194; l’assassinio di Aldo Moro (9 maggio 1978); la lunga campagna mediatica violenta e bugiarda in favore della legge.
La “clinica degli aborti” (9 gennaio 1975)
Che non si trattasse di un qualsiasi aborto clandestino risultò subito evidente dalla targa all’ingresso della bella villa nelle vicinanze del Viale dei Colli, a Firenze: “Partito Radicale”. Inoltre all’interno non vi erano soltanto una o due donne incinte, ma una quarantina di giovani provenienti da tutta Italia, convogliate e accompagnate da esponenti del partito radicale, 16 letti, un medico già più volte condannato per aborto clandestino, un rappresentante di medicinali che eseguiva anche lui gli interventi. Si trattava evidentemente di una vera e propria organizzazione. In effetti dalle indagini risultò che per tre volte la settimana, a giorni alterni, dalle 14 alle 17, vi venivano eseguiti a catena una quarantina di aborti al giorno, con un record di 80, come, confessando, dichiarò il medico.
L’aspetto più delicato fu che gli esponenti radicali coinvolti, poi divenuti parlamentari, sfruttando l’evento con la loro consumata abilità mediatica, riuscirono a far passare quella attività come un coraggioso “aiuto alle donne” offerto ad un prezzo politico (150.000 lire per ogni aborto), nonostante che gli atti giudiziari parlassero poi in qualche caso anche di conseguenze assai gravi per la salute di qualche donna, di corposi versamenti bancari effettuati in breve tempo, di documenti personali di donne trattenuti nello studio del medico a garanzia dei pagamenti che esse non avevano effettuato.
Purtroppo, lo sfruttamento di vicende giudiziarie per assumere la veste di difensori delle vittime e di vittime del potere essi stessi, è una tecnica dei radicali in tutto il mondo. Negli Stati Uniti la liberalizzazione dell’aborto è stata ottenuta attraverso la sentenza della Corte Suprema del 22 gennaio 1973, al termine di un processo intentato contro le leggi vigenti da Jane Roe (pseudonimo di Norma Mc. Corvey) dichiaratasi vittima di violenza carnale. Il vittimismo è molto capace di commuovere il sentire pubblico, anche quando si fonda su falsi: recentemente Norma Mc. Corvey ha rivelato di aver mentito sulla violenza sessuale, spinta a ciò dalle lobby abortiste. «Una delle confessioni che devo fare – sono parole della Mc Corvey riportate dal quotidiano “Il Giornale” del 17 gennaio 2005 – è che nel 1973 ho mentito, dichiarando di essere rimasta incinta dopo essere stata violentata da una banda. Sarah Weddington ci basò buona parte della mozione, sapendo che gli americani sarebbero certo stati a favore dell’interruzione di gravidanza per una donna stuprata. Ma non era vero. Avevo mentito. La legge che ha ucciso milioni di vite era nata da una bugia».
In Francia, nel 1972, il processo svoltosi a Bobigny riguardante ancora una volta, l’aborto di una minorenne (Marie-Claire Chevalier di 17 anni) asseritamente vittima di violenza, ha costituito una forte spinta verso la legge Veil del 1975.
In Italia un processo originato dagli aborti clandestini organizzati sistematicamente probabilmente non era stato previsto dai radicali come mezzo di pressione sul Parlamento, ma è stato egualmente sfruttato, approfittando della situazione politica e culturale particolarmente intricata. In particolare la minaccia di un referendum per rimuovere i limiti di legge riguardo all’aborto, nel contesto della c.d. solidarietà nazionale e in presenza di un terrorismo crescente spingeva ad evitare lacerazioni popolari immediatamente dopo la prova referendaria sul divorzio dell’anno precedente (12 maggio 1974).
La sentenza n. 27/75 della Corte Costituzionale (18 febbraio 1975)
Forse parve saggezza dare un colpo al cerchio e uno alla botte. In effetti, soltanto dopo un mese dalla scoperta della “clinica degli aborti” con l’inevitabile arresto degli esponenti radicali organizzatori di quella sistematica violazione della legalità, la Corte Costituzionale intervenne con una decisione che, probabilmente, intendeva chiudere il dibattito. Essa annullò parzialmente il generale divieto penale di aborto, allargando lo spazio dello “stato di necessità”, già previsto in via generale come causa di giustificazione per ogni reato. Nonostante l’apertura la conclusione era piuttosto rigorosa: “la liceità dell’aborto deve essere ancorata ad un previo accertamento medico circa la realtà e la gravità di un pericolo non altrimenti evitabile per la salute della donna”.
La necessità dell’accertamento medico (il rifiuto, quindi della libera scelta della donna), l’inevitabilità del danno (l’aborto, quindi, come rimedio estremo e non come scelta), l’omesso riferimento alla salute psichica (che nell’interpretazione della legge 194 coincide con la mancanza di resistenze psicologiche alla gravidanza) avrebbero dovuto costituire barriere invalicabili e relegare l’aborto legale a casi rari e davvero seri. Ma per allargare lo stato di necessità bisognava stabilire che sulla bilancia dei beni in comparazione la salute della madre pesasse di più della vita del figlio. Per questo la Corte, pur collegando il diritto del concepito ai diritti dell’uomo, introduceva la indimostrata distinzione tra “persona” (la madre) e “chi persona deve ancora diventare” (il figlio). Ognuno può constatare come la legge 194, facendo leva su questa distinzione, ha travolto tutti i limiti fissati a livello costituzionale.
Seveso (10 luglio 1976)
Il 10 luglio 1976 a Seveso, cittadina della Brianza, un grave danno alla azienda Icmesa diffuse nell’atmosfera e sui terreni della zona una sostanza ritenuta velenosa: la diossina.
Immediatamente i radicali sostennero che l’inquinamento avrebbe provocato danni ai feti della donne incinte e, con le loro metodiche rumorose, pretesero che la precedente decisione della Corte Costituzionale venisse attuata per la prima volta sottoponendo ad interruzione di gravidanza le donne che l’avessero richiesta. Il caso suscitò polemiche pubbliche durissime, anche per la resistenza delle donne brianzole, pur sottoposte a pressioni di ogni genere con il conseguente immaginabile stress. Sta di fatto che il Governo italiano, in particolare attraverso i Ministri della Sanità e della Giustizia dell’epoca, “autorizzò (cosa singolarissima perché non si vede quale potere di interpretazione autentica possa essere attribuita al Governo) gli aborti. Le trentatré interruzioni di gravidanza furono eseguite presso la clinica Mangiagalli di Milano.
Il fatto merita di essere ricordato perché dimostra il clima rovente di quegli anni e le menzogne che hanno accompagnato l’iter legislativo della legge 194. Infatti i trentatré corpicini dei feti abortiti furono inviati in Germania, a Lubecca, per gli opportuni controlli. La risposta ufficiale giunse nel marzo 1977: nessuno recava segni di possibili malformazioni. Questo dato è riportato anche negli atti di una inchiesta parlamentare sui fatti di Seveso. Va aggiunto che nessuna delle numerose donne che non cedettero al terrorismo abortista ha avuto figli malformati: una ventina di queste ragazze e ragazzi, ormai divenuti ventenni, sono stati presentati dal Movimento per la Vita a Giovanni Paolo II in una speciale udienza del maggio 1998, in occasione del ventennale della legge 194.
Vale la pena riportare quanto detto dal Prof. Giambattista Candiani in un partecipatissimo convegno del 1988 (“La vita domani”). Il Prof. Candiani primario ostetrico della Clinica Mangiagalli all’epoca dei fatti, aveva eseguito ed organizzato gli aborti delle donne di Seveso. Con visibile notevole commozione, dopo aver ricordato quell’episodio come il più triste della sua vita, il più in contraddizione con la sua professione, egli disse: “Di fronte a Seveso, dopo una penosa e lunga meditazione, mi sono assunto la responsabilità di aderire alle richieste di interruzione della gravidanza per 33 donne condizionate all’epoca da pittoreschi personaggi che incitavano all’aborto con sinistri avvertimenti. E come è noto, alla verifica, nessun prodotto del concepimento volontariamente abortito risultò colpito dai presunti effetti teratogeni della diossina”.
Il referendum radicale promosso nel 1975
Quando si parla di referendum sull’aborto, tutti pensano alla consultazione popolare del 1981, che vide contrapposte la posizione radicale e quella del Movimento per la vita. Ma l’aborto è stato oggetto di altre due richieste di referendum, entrambe proposte dal partito radicale. Per la prima la raccolta di firme fu avviata subito dopo la scoperta della clinica clandestina di Firenze ed ha avuto un’ enorme importanza in ordine alla approvazione della legge 194. La terza, di contenuto identico a quella in precedenza promossa contro la legge 194 nel 1980 che dette luogo al referendum effettuato nel 1981, è stato dichiarata inammissibile dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 35 del 10 febbraio 1997. La prima richiesta di referendum è invece, quella che attaccava le norme del codice penale con cui veniva punito l’aborto.
Per comprendere l’influenza, sostanzialmente ricattatoria, esercitata sul legislatore, bisogna ricordare che nel 1974, l’anno che precedette quello dei fatti di Firenze, si era svolto il referendum sul divorzio, anch’esso ispirato dai radicali, che aveva registrato la sconfitta delle forze cattoliche, particolarmente della Democrazia Cristiana, la quale ne aveva subito negativi rimbalzi politici, tanto che nelle elezioni politiche del 1975, per la prima volta nella storia, era stata scavalcata dal Partito Comunista. Perciò nell’area più sensibile alla difesa del diritto alla vita, la maggioranza temeva grandemente l’esecuzione di un nuovo referendum. La parola d’ordine era che bisognava evitare in tutti i modi quella consultazione popolare. L’unica possibilità era quella di approvare una legge che andasse nella direzione delle proposte referendarie, anche a costo di travolgere i limiti definiti dalla Corte Costituzionale. Si aggiunga che anche il Partito Comunista non voleva quel referendum. Era l’epoca della solidarietà nazionale, dell’alleanza, prima prospettata, poi realizzata, tra Democrazia Cristiana e Partito Comunista (luglio 1976 – luglio 1979). Era logico immaginare che il referendum avrebbe scavato un solco contrario al progetto e all’alleanza in corso. La scelta politica, dunque, fu di evitarlo ad ogni costo. Anche a costo di approvare una legge squilibrata.
Il tutto va collocato nel clima terroristico dell’epoca. Non sarebbe stata la consultazione popolare, con la sua accensione degli animi e le sue contraddizioni aspre, il brodo di cultura adatto al prosperare del terrorismo? Per rivivere un po’ il clima dell’epoca basti ricordare qualche episodio. Nel febbraio 1972 fu ucciso il Commissario Calabresi, nel 1976 fu la volta del giudice Occorsio, nel 1977 di Casalegno, nel 1978 dei giudici Palma e Tartaglione e del sindacalista Rossa. I nomi di queste vittime sono scelti tra innumerevoli altre. L’acme della violenza fu raggiunto con il sequestro di Aldo Moro, l’assassinio della sua scorta, la sua uccisione. Di nuovo la soluzione più opportuna pareva a molti quella di evitare il referendum. Ad ogni costo. In effetti, anche per evitarlo, rinviandolo intanto, nel 1776 furono sciolte anticipatamente le Camere. Non potendosi effettuare un referendum nell’anno delle elezioni politiche generali, né in quello immediatamente successivo, la consultazione venne indetta per il 15 giugno 1978. Se questa data viene accostata a quella del 22 maggio 1978, giorno in cui fu pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale la legge n. 194, si capisce bene che tale legge fu approvata proprio in extremis, forzando la chiusura di estenuanti decisioni e piegando, – con la forza dell’argomento referendario – le resistenze di chi la riteneva ingiusta. Nel suo intervento alla Camera del 5 maggio 1978, per esempio, l’on. Bettiza del Partito liberale affermò che lo svolgimento del referendum radicale avrebbe favorito i disegni eversivi del terrorismo a causa delle contrapposizioni e agitazioni che si sarebbero determinate nel Paese.
Non mancò la promessa di una futura più serena revisione della legge, una volta superata la spada di Damocle del referendum. Tra tutte le citazioni possibili riportiamo quella di Giovanni Berlinguer, particolarmente autorevole, perché era relatore di maggioranza. Nel suo intervento conclusivo, immediatamente prima del voto finale, egli disse: “sarebbe assai utile e opportuno un impegno di tutti i gruppi promotori a riesaminare, dopo un congruo periodo di applicazione, le esperienze positive e negative di questa legge […] Dovremmo riesaminare le esperienze pratiche, le acquisizioni scientifiche e giuridiche e assicurare da parte di tutti i gruppi parlamentari l’impegno di introdurre nella legge le necessarie modifiche […] Ciò può garantire che vi sia, successivamente all’approvazione della legge, un lavoro comune sia nell’applicazione che nella revisione del testo. Dobbiamo ripartire continuamente dall’idea che il problema, per la sua complessità e delicatezza, richiede da parte di ciascuno di noi un alto senso di responsabilità, ed anche una profonda capacità di rivedere ciascuno, alla luce delle esperienze, idee e concetti che sembrano ora acquisiti e quasi cristallizzati”.
Tra l’altro, il neonato Movimento per la Vita aveva tentato di offrire una via legislativa capace di evitare il referendum con indicazioni ben più equilibrate e giuste di quelle contenute nella legge 194. Tra l’8 dicembre 1977 e il 20 gennaio 1978 furono raccolte ben 1.089.000 sottoscrizioni, tutte legalizzate, a sostegno di una proposta di legge di iniziativa popolare. Negli atti dei lavori preparatori della legge 194 vi è traccia ripetuta di questa iniziativa. Dicono i senatori: è una proposta che contiene buoni suggerimenti, ma è troppo tardi, stralciamola, la esamineremo dopo. La promessa non è stata mantenuta.
Il voto del Senato del 7 giugno 1977
Quando il referendum radicale non era ancora incombente, il Parlamento ebbe un brusco scossone, che sembrò arrestare la corsa verso la legge. Il 7 giugno 1977 su una mozione pregiudiziale di incostituzionalità, il Senato, sia pure con un solo voto di maggioranza, disse che “sì”, la proposta di legge di legalizzazione dell’aborto contrastava con la Costituzione. Secondo il regolamento, l’iter legislativo avrebbe dovuto chiudersi e non avrebbe potuto riprendere daccapo il suo cammino se non dopo una sospensione di sei mesi. Ma fu trovato un escamotage e, invece, i lavori ripresero subito. Quel che merita ricordo, peraltro, non è tanto questa probabile forzatura regolamentare, ma il modo in cui si tentò di superare altre possibili eccezioni di costituzionalità. Fu presentato il vecchio testo già giunto al voto del Senato, con tre sole modifiche. Nel titolo fu aggiunta la “tutela sociale della maternità” (ma il titolo – è noto – non conta nulla); l’art. 15 relativo alla funzione dei Consultori fu spostato nell’art. 2 (per dare l’impressione – si disse – che la prima preoccupazione era quella della prevenzione); all’art. 4 l’espressione “l’aborto è consentito …” fu sostituita con “La donna che accusi circostante per la quali la prosecuzione della gravidanza …” I proponenti dissero che stonavano le parole “è consentito”, perché lo Stato non può esprimere consenso all’aborto, ma la volontà normativa rimase esattamente la stessa.
In sostanza il contenuto permissivo del testo rimase intatto, ma fu coperto con un’operazione verbale di pura immagine, che, purtroppo, svolse, ha svolto e svolge ancora oggi, una funzione sostanzialmente ingannatoria nei confronti del lettore superficiale, il quale, leggendo nel titolo “Tutela della maternità” è portato a credere – contrariamente alla verità – che l’intento della legge sia quello di proteggere in qualche modo la vita e non quello di riconoscere alle donne la facoltà di abortire senza troppe restrizioni, se non di carattere formale.
L’assassinio di Aldo Moro (9 maggio 1978)
E’ chiaro che l’uccisione spietata del Presidente della DC a conclusione di un lungo sequestro carico di tensione, emozioni e ricatti, tanto da determinare le dimissioni del Ministro dell’Interno, Francesco Cossiga, il giorno in cui il cadavere fu trovato in via Caetani, cancellò ogni capacità di impedire o modificare la legge 194, che di fatto fu approvata dal Senato appena 9 giorni dopo (18 maggio) e pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale il 22 maggio. E’ il segno, in certo senso misterioso, di una stagione di turbolenza e di violenza. Di certo, si può dire che, almeno in parte, la legge 194 fu frutto anche di paure, ricatti e inganni. L’urgenza di evitare il referendum risultò ancora più forte e comunque la preoccupazione di difendere la vita nascente fu rimossa dall’angoscia del momento perché si temevano nuove più gravi violenze rivoluzionarie. A chi ancora tentava di ricordare la gravità della legalizzazione dell’aborto si rispondeva: “maiora premunt”.
Una propaganda violenta e bugiarda
Per arrivare alla legge, si era già cominciato, qualche anno prima, a gridare sulle piazze: «l’utero è mio e ne faccio quello che voglio io». In realtà non tanto l’utero, strillava il veterofemminismo, ma il suo contenuto – il figlio da poco concepito che i radicali chiamavano «un grumo di sangue» come si diceva nell’antichità – era dichiarato proprietà privata di colei che lo portava in grembo.
Per rafforzare le loro affermazioni, gli abortisti dissero che il Codice penale del 1931 (il Codice Rocco dal nome del ministro che lo aveva curato), pubblicato in epoca fascista, era un codice razzista, perché aveva collocato l’aborto fra i reati «contro l’integrità e la sanità della stirpe» e non contro la persona. Era effettivamente una collocazione giuridica poco felice, ma la critica abortista era menzognera e per diversi motivi. Innanzitutto, perché «stirpe» non vuol dire razza, ma serie di generazioni (che veniva interrotta con l’aborto) e poi perché la «Carta della razza» venne promulgata in Italia nel 1938 a imitazione della legislazione nazista e perché il Codice del ’31 aveva preso di peso, tali e quali, quegli articoli, dal precedente Codice Zanardelli del 1889, senza nemmeno cambiarne una virgola. I tempi sono cambiati, la cultura, la sensibilità, il pensiero giuridico sono cambiati. Non si tratta di difendere il vecchio codice penale. Si tratta soltanto di registrare l’ efficacia di una campagna fondata su affermazioni false. Tanto poco le norme in vigore erano fasciste che anche tutte le altre nazioni dell’ Europa occidentale avevano legislazioni del tutto simili a quella italiana.
La legge 194 nacque, però, anche sull’onda di una falsificazione e manipolazione di dati statistici. Si diceva che in Italia ogni anno morivano, per le conseguenze degli aborti, da 20 a 25mila donne: un autentico ginocidio, strage di donne. In realtà le donne in età fertile che morivano ogni anno per qualsiasi causa (incidenti, malattie, delitti, suicidi…) non superavano le 13mila… Basta consultare il compendio statistico italiano del 1974, l’ anno in cui cominciò a diventare accesa la campagna pro-aborto. Nell’ intero anno morirono 9914 donne tra i 14 e i 44 anni e solo 409 per cause legate alla maternità, alla gravidanza e al parto, non tutte, ovviamente, causate dall’ aborto clandestino.
Si sosteneva anche che il numero degli aborti era di 800mila (pari a quello delle nascite di allora), numero attribuito al ministero della Sanità; anzi di 1.250.000 (attribuito all’Università di Pavia); anzi di due o tre milioni (congresso di Bologna del 1968 della Società italiana di ostetricia e ginecologia); anzi di quattro milioni (attribuito all’Oms). Nessuno di questi enti, in realtà, aveva mai formulato né fornito questi dati, che erano del tutto immaginari.
Questi numeri, tuttavia, furono acriticamente accettati dai giornali, dalle relazioni ai disegni di legge, dai partiti (“Corriere della Sera” del 19/09/76: da 1,5 a 3 milioni di aborti clandestini l’ anno; “Il Giorno” del 7/09/72: Da 3 a 4 milioni). Nessuno provò a fare qualche calcolo elementare. Se fossero stati quattro milioni, ciò avrebbe significato che tutte, ma proprio tutte le donne in età fertile avrebbero dovuto praticare nel corso della loro vita fertile (circa 30-35 anni) ben undici aborti volontari. Più quelli eventuali spontanei e i parti. Per 1,2 milioni di aborti annui gli aborti sarebbero stati 3,2 per donna; per 800mila, 2,1 aborti. Sennonché, mentre prima delle legge 194 gli aborti (sempre clandestini) erano, secondo le stime più serie, centomila l’anno o poco più, ma più probabilmente di meno, come risulta da uno studio del Professor Bernardo Colombo, ordinario di statistica all’ Università di Padova (“La diffusione degli aborti in Italia” edizioni “Vita e pensiero”, 1977), in regime di legalità le “interruzioni volontarie di gravidanza” legali sono arrivate al massimo annuo, nel 1982, di circa 230mila e meno male che sembrano diminuite. Nonostante il clima descritto, il giorno dell’approvazione definitiva della legge in Senato, l’ allora ministro della Giustizia (di un governo che si era dichiarato «neutrale» in materia), sintetizzò tutta la vicenda con parole non sincere. Disse un’ altra cosa non vera, che, cioé, «gli stessi promotori della legge avevano seccamente smentito la tesi, aberrante sul piano costituzionale, civile e morale, secondo la quale l’aborto costituirebbe contenuto e oggetto di un diritto di libertà». Erano anni che Radicali e veterofemministe reclamavano su tutte le piazze il diritto di aborto e, dal 1978, sono trent’anni che si continua a parlare del «sacrosanto diritto delle donne di abortire».