Giovanna Favro
Lui non aveva ancora compiuto 17 anni, lei ne ha 15. Due adolescenti, innamorati come succede a quell´età: sempre incollati, sempre insieme. Ma con un problema grosso, più grosso di loro. C´era un bambino in arrivo, e Marta e Massimo volevano che quel figlio non nascesse. Era sera, giovedì, quando Massimo (i nomi sono di fantasia) s´è ucciso. Ha preso una sedia e una corda, e s´è lasciato andare da un tubo che taglia il soffitto del garage. Prima ha telefonato a Marta. Gliel´ha detto: «La faccio finita». Poi ha staccato il cellulare, ha strappato dal muro il telefono di casa. Marta ha fatto una corsa disperata, da casa sua fino al garage nel centro della cittadina, per fermarlo. Ha visto il fratellino di lui, e ha gridato. Così quel bambino di 12 anni ha sfondato un vetro, e ha visto suo fratello impiccato. Ore dopo, ieri mattina, le due famiglie sono andate all´Asl e al Consorzio socio-assistenziale, e hanno aggredito a schiaffi gli operatori. «I nostri ragazzi chiedevano aiuto, e hanno trovato un muro». Marta voleva abortire, e voleva farlo senza che i suoi genitori lo scoprissero. Diceva che non voleva dare un simile dispiacere a suo padre, «che è tanto fiero di me». E poi «voglio finire gli studi». Forse sentiva soprattutto paura, o vergogna. Solo con la mamma di Massimo, Luisa, operaia di 36 anni, i due ragazzi s´erano confidati. Piange, Luisa, mentre parla di «mio figlio, amore mio. Il mio bambino. Aveva già tanto sofferto: aveva combattuto tre anni la leucemia, e s´era preso l´epatite da una trasfusione. Scrivete quel che ha passato, quel che è successo. Dite come si sono comportati con lui». Accanto c´è il marito Olivier, 37 anni e lo sguardo agghiacciato. Neppure lui aveva saputo nulla della gravidanza di Marta. «Al lavoro, mi han detto di correre a casa perché bruciava il garage. Invece mio figlio era morto». Luisa: «Massimo era molto sensibile, era un ragazzo gentile. Li ho sempre accompagnati io all´Asl, al consultorio, e alla fine dal giudice tutelare. Li ho aiutati, sono stata loro vicino, ho fatto tutto ciò che potevo. Ma a me non lasciavano mai entrare, ai colloqui. Non c´entravo niente, dicevano. Non mi volevano vedere. Ero la madre del maschio, e la decisione toccava alla ragazza, e solo a lei. Nemmeno mio figlio, il più delle volte, poteva entrare. Una volta l´hanno ricevuto, ma solo per accusarlo di quello che aveva combinato». «Marta l´aveva detto anche al giudice: “Non potete impormi di dirlo ai miei genitori”. Altrimenti avrebbe fatto una pazzia, sarebbe scappata. Invece qui a Rivoli facevano pressione perché lei si confidasse, minacciavano di informare suo padre direttamente loro». Così Marta «piangeva, piangeva, e mio figlio impazziva a vederla piangere. Si sentiva in colpa». E dopo tutti quegli appuntamenti, con Marta che scappava di nascosto per andare dagli assistenti sociali, «dicevano che non c´erano motivi abbastanza gravi per tenere la cosa nascosta alla famiglia. Minacciavano di impedirle l´aborto, senza il consenso dei suoi. Ma lei niente, aveva troppa paura. Anche se sua madre e suo padre avevano accolto Massimo come un figlio, proprio non se la sentiva». Era già passato un mese e mezzo, l´ansia e la pressione crescevano. «Anche se ripetevo a Marta che alla peggio l´avremmo accolta noi, se tutto fosse andato storto». «Il giudice tutelare aveva detto che avrebbe dato il permesso, se gli assistenti sociali gli avessero spedito una relazione favorevole. Dovevano andare oggi a un nuovo appuntamento, qui a Rivoli. Invece mi sono presentata io, con la famiglia di Marta, e abbiamo preso a schiaffi l´assistente sociale dell´Asl e quello del Consorzio socio-assistenziale». Si torce le mani, vuole che Massimo, «Nino» per gli amici, sia sepolto con la giacca, «perché fa freddo, povero bambino». L´ultimo pomeriggio, tra Marta e Massimo c´era stato un vorticoso susseguirsi di telefonate, un litigio. Marta: «Piangevo, dicevo che non ce la facevo più. Avevo bisogno di sfogarmi. L´ho anche trattato male, ma poi ho richiamato per fare pace. Lui però stava zitto, e alla fine mi ha detto “adesso basta, la faccio finita”». Povera Marta, spaventata e con gli occhi gonfi, che prova rabbia «per quelli, quella dell´Asl ha detto a Nino che avrebbe dovuto masturbarsi invece di combinare casini». Marta che ora aspetta un figlio da quel ragazzo dolce di cui s´era innamorata in gita scolastica, alle medie, a Venezia.

Giacomo Bramardo