Dopo l’intervento finisce in psichiatria. Il primario: “E’ stata una violenza”

GRAZIA LONGO

TORINO
Valentina, 13 anni, è poco più di una bambina. Eppure non voleva separarsi da chi sentiva crescere dentro di sé. Ha pianto, ha urlato, ha insultato, ma alla fine ha vinto la legge ed è stata costretta ad abortire. Lei allora ha ricominciato a piangere, a strepitare. «Me l’avete fatto ammazzare e adesso m’ammazzo io, m’ammazzo» ha detto ai genitori. Non stava scherzando, il dolore e la disperazione sono esplosi ad un livello tale da richiedere un ricovero d’urgenza al reparto psichiatrico del Regina Margherita.

È l’ospedale dei bambini di Torino, dove Valentina – un corpo di donna cresciuto troppo in fretta – da una settimana è spaesata e confusa. Le hanno vietato di incontrare il suo ragazzo, uno studente di 15 anni, perché cercano di proteggerla dalle emozioni forti ma anche dal desiderio di scappare. «Io qui non ci voglio stare – continua a ripetere – non sono pazza, sto solo male come un cane per quello che i miei genitori e i giudici mi hanno obbligato a fare». Sulle sue condizioni psichiche vigilano i medici, ha iniziato una psicoterapia per imparare a ritrovare se stessa. Mentre sua madre adesso si tormenta per aver violato il desiderio della figlia. Un desiderio sicuramente in controtendenza con quanto solitamente accade in circostanze analoghe, perché è difficile incontrare una tredicenne che voglia diventare mamma. Ad opporsi all’aborto, sono spesso quei genitori cattolici che convincono la figlia a partorire un bimbo da cedere in adozione.

Stavolta non è andata così. Valentina voleva quel bambino, lo voleva a tutti i costi. Ma a una minorenne non è concesso di scegliere: il consenso all’aborto spetta alla famiglia. Il giudice tutelare del Tribunale dei minori, contattato dal consultorio o dai servizi territoriali, interpella la minore per valutare qual è la soluzione che meglio la protegge. Esistono però ragioni del cuore e dell’anima difficili da sondare, soprattutto quando si è così giovani. E quando, come in questo caso, anche la famiglia dimostra difficoltà a gestire una situazione così complessa e delicata. I genitori di Valentina hanno meno di 40 anni, sono operai e non hanno altri figli. Quando hanno scoperto la gravidanza non hanno avuto esitazioni. «Sei troppo piccola, non puoi rovinarti la vita così». Valentina ha cercato di ribellarsi, ha spiegato e rispiegato che nonostante i suoi 13 anni, voleva andare avanti. «Non posso buttare questo bambino – ha implorato – cercate di capirmi». Nessuno le ha dato retta. I motivi sono facilmente intuibili, prima fra tutti la difficoltà per una ragazzina di 13 anni e un ragazzo di 15 di diventare genitori. Valentina frequenta la terza media, ha voglia di divertirsi, di andare a spasso con gli amici, al cinema, in discoteca. Anche ora che è in ospedale rimpiange i pomeriggi e le serate con il suo ragazzo quindicenne.

Si può, a quest’età, mettere al mondo un figlio? Valentina era (e forse lo è ancora) convinta di sì. Dopo l’interruzione di gravidanza, all’ospedale Sant’Anna, l’inevitabile il crollo. Crisi isteriche, minacce di suicidio, dolore alle stelle. Gli psichiatri dell’Asl non hanno perso neppure un attimo e hanno disposto il ricovero d’urgenza nel reparto psichiatrico dell’ospedale Regina Margherita. La ragazzina vi è arrivata in ambulanza, a sirene spiegate, una settimana fa. E il suo futuro? Il primario di neuropsichiatria infantile, Roberto Rigardetto, è preoccupato.

«Valentina ha chiaramente subìto una violazione terribile – osserva – perché l’aggressione che ti condanna all’aborto è la stessa di quella che vieta di farlo. Si tratta sempre di una limitazione della libertà personale. Si è vero ha solo 13 anni, ma gli adolescenti di oggi sono diversi da quelli di 20 anni fa. Sarebbe stato meglio che non rimanesse incinta, è ovvio, ma non si dovevano trascurare le sue intenzioni come invece è accaduto». Secondo il professor Rigardetto, inoltre, è impropria anche la permanenza in ospedale. «Valentina non è una malata psichica, la sua patologia è il dolore subìto. Starebbe meglio, prima di tornare a casa, in una comunità alloggio». Sempre che ci voglia andare.