Egregio sig. Ferrara,

ieri mattina, leggendo su un manifesto affisso nella mia città le liste dei candidati all’elezione alla Camera dei deputati, ho scoperto che il suo giorno di nascita è il 7 gennaio. Questa è una bella coincidenza per lei. Sì, perché all’alba dello scorso 7 gennaio nella sala parto “Camelia” del Policlinico Gemelli di Roma è nata prematuramente, con parto spontaneo, la mia quarta figlia, Agnese. E’ nata, è stata battezzata e poi è salita subito in Paradiso, da Colui che ce l’aveva donata.

Agnese aveva la trisomia 18 che le ha causato un ritardo di crescita e l’atresia dell’esofago. Era un “feto terminale”. Per tale motivo è stata considerata da molti medici una vita inutile. Tutti ci hanno consigliato di abortire, o al massimo ci hanno detto di rispettare un’eventuale scelta diversa da parte nostra, ma di non poter più, in tal caso, seguire la mia gravidanza. Lasciandomi sola. Ci chiedevano che dubbio avessimo, visto che su un feto terminale non dovrebbero esserci problemi etici. Noi però un dubbio lo abbiamo avuto: quello di non poterci sostituire a Dio, datore della vita, e di non avere il potere di decidere quando il cuore di nostra figlia avrebbe dovuto cessare di battere.

Nella dolorosa decisione di abbracciare questa croce e di accompagnare Agnese, figlia di Dio, prima che nostra, nella breve esistenza a cui era chiamata, siamo stati “presi per mano” dal Prof. Noia, responsabile della diagnosi e terapia prenatale del Policlinico Gemelli e da “La quercia millenaria”, l’Associazione di cui è vice presidente, la quale ha istituito un centro di aiuto per il feto terminale e che tutela i genitori che compiono questa scelta d’amore sostenendo che l’aborto “terapeutico” non è l’unica soluzione quando si concepisce un figlio non sano. Il Prof. Noia non ha mai pensato che nostra figlia fosse una vita inutile.

E’ stato l’unico medico che l’ha considerata “preziosa davanti agli occhi di Dio” e che ci ha detto che la mia gravidanza aveva la stessa dignità delle altre. Ed ora, sig. Ferrara, dopo la nascita e morte di Agnese le confermo di essere convinta anche io che la sua breve esistenza non sia stata vana. Con stupore scopro ogni giorno che molti pregano per lei, la ricordano durante la Messa, visitano e curano la sua tomba, le chiedono preghiere di intercessione presso Dio. Tutto ciò mi commuove. Sono molto orgogliosa di essere io sua madre. E se avessi interrotto la gravidanza e mia figlia fosse stata gettata nei “rifiuti speciali” ? Per il mondo sarebbe stata un nulla. Ed io avrei terminato di vivere.

Le donne che sui manifesti elettorali scrivono “Sono donna e sono incazzata perché vogliono impedirmi di esercitare un mio diritto con la scusa di turbare la mia coscienza” non sanno bene ciò che affermano. Le donne che si battono per difendere questo diritto di uccidere non mi fanno sentire più donna, mi offendono, mi sviliscono. E offendono il dono più grande che hanno ricevuto: quello di poter diventare madri. E di poter gestare un prezioso angelo come Agnese.

La mia gravidanza sofferta (ho versato fiumi di lacrime) non può essere stata inutile, Agnese non è inutile, non posso crederlo. La sua esistenza è piuttosto una missione. Forse quella di proteggere tutti coloro che difendono la vita. Come sta facendo ora lei. Sig. Ferrara è fortunato ad avere in comune con Agnese il giorno di nascita. Vede, io non so se lei abbia fatto bene o male a presentare una propria lista, però una cosa la so: il caso non esiste.

ER SOGNO BELLO

di Trilussa

Macchè! – je disse subbito er dottore –

Qui nun se tratta mica d’anemia!

E’ gravidanza, signorina mia:

soliti incertarelli de l’amore! –

Pe’ Mariettina fu ‘na stretta ar core:

– So’ rovinata! Vergine Maria!

Madonna santa, fate che nun sia!

Nun potrei sopportà ‘sto disonore! –

Ma appena vidde ch’era proprio vero

corse da Nino. – Nun è gnente! – dice –

Se leveremo subbito er pensiero.

Ce vo’ la puncicata. Domattina

te porto da ‘na certa levatrice

che già l’ha fatto a un’antra signorina. –

II

La sera Mariettina agnede a letto

coll’occhi gonfi e con un gnocco in gola,

e s’anniscose sott’a le lenzola

pe’ piagne zitta, senza da’ sospetto.

Poi pijò sonno e s’insognò un pupetto

che je diceva: “Se te lascio sola,

povera mamma mia, chi te consola

quanno t’invecchierai senza un affetto?”

E, sempre in sogno, je pareva come

se er fijo suo crescesse a l’improviso

e la baciava e la chiamava a nome…

Allora aperse l’occhi adacio adacio

e s’intese una bocca, accanto ar viso,

che la baciava co’ lo stesso bacio.

III

Era la madre. – Mamma, mamma bella! –

E se la strense ar petto. – Amore santo!

Che t’insognavi che parlavi tanto

e facevi la bocca risarella?

Però ciai l’occhi come avessi pianto…

Dimme? che t’è successo? – E pe’ vedella

più mejo in faccia, aprì la finestrella

e fece l’atto de tornaje accanto.

S’intese un fischio. – Mamma! questo è lui

che sta aspettanno sotto l’arberata…

Dije che vada pe’ li fatti sui.-

Anzi faje capì che se l’onore

se pò sarvà con una puncicata

preferisco de dajela ner core.